martedì 10 marzo 2009

ZAPATISTI HANNO ESTIRPATO ALCOLISMO E DROGA

 

La Jornada – Sabato 7 marzo 2009

 

GLI ZAPATISTI HANNO ESTIRPATO ALCOLISMO E DROGA

Hermann Bellinghausen - Inviato

 

Municipio autonomo Lucio Cabañas, Chis., 6 marzo. Un risultato sanitario indiscutibile delle comunità zapatiste è lo sradicamento dell'alcolismo da oramai 20 anni. La differenza nella quotidianità familiare e comunitaria è profonda ed implica meno violenza, che è già un indicatore sanitario. Ancora di più trattandosi di popoli indigeni e conoscendo le stragi che causa tra loro l'alcool, sempre di pessima qualità.

 

Lo raccontano cronache e romanzi: gli indios si controllano con l'acool. Fernando Benítez negli anni '70 visitò in Chiapas questi popoli e li trovò prostrati, con la dignità umiliata, ubriachi come un'epidemia. Oggi non si vede più questo nelle comunità in resistenza. Le feste che hanno fatto per 15 anni, visibili o discrete, grandi o piccole, sempre con danze fino all'alba, si svolgono sempre senza una goccia di alcool. È un'eccezione assoluta su scala nazionale, con carnevali e feste patronali a colpi di posh, acquavite o brandy sintetico. E senza andare lontano, ogni fine settimana.

 

Non bevendo, i contadini, in particolare gli uomini, eliminano il rischio di malattie frequenti nei popoli indigeni: ulcera, cirrosi, denutrizione e ferite di machete provocate dalle risse tra ubriachi. Non si scorge tra gli indicatori di salute delle istituzioni governative, ma il suo effetto sulla salute pubblica, a ben vedere, è eccezionale.

 

Per non parlare dell'inesistenza di consumo o spaccio di droga, assolutamente non  permessi nelle comunità autonome. Il ritorno all'alcolismo normalmente è il percorso verso la diserzione nelle comunità divise e strumento privilegiato delle strategie di contrainsurgencia dal 1995.

 

Il murales sulla facciata della clinica autonoma Esperanza de los Pobres, dipinto dai promotori di salute, fiancheggia l'accesso alle strutture, povere come il nome, ma di una pulizia che balza agli occhi. La sua parte principale è come un libro aperto con le istruzioni per il percorso della salute. È un dipinto che potrebbe anche essere esposto in un museo, anche se parla solo dell'igiene personale e comunitaria, della latrina, deimmetodi per separare la spazzatura, legare gli animali, spazzare il patio. Tutto illustrato in maniera molto espressiva.

 

I promotori di guardia, un ragazzo ed una ragazza, tzotziles molto svegli, permettono a La Jornada di visitare le strutture. Un ambulatorio ampio, arredato solo con un lettino e strumenti base; sotto il vetro della scrivania una foto grande del dottor Ernesto Che Guevara. Una sala di ginecologia per il controllo di gravidanze, parti ed esami. Un'area dentistica. Una farmacia con le cose essenziali ordinate con cura. "Visitiamo qui e a domicilio", afferma il promotore. "Raramente c'è un medico, ma accompagniamo la gente che deve andare all'ospedale". Qui si distribuiscono anche i vaccini del municipio autonomo.

 

Sopra il sedile posteriore di un combi (taxi collettivo - n.d.t.) appoggiato alla parete dell'entrata, si legge: "Sala d'aspetto". Ci conducono al laboratorio dove si realizzano biometrie, esami delle urine, il test per la tubercolosi, coproculture, paptest. Imbrunisce. Arriva di corsa una famiglia indigena con un neonato in lacrime. Il promotore li accompagna nell'ambulatorio.

 

"Quella è l'ambulanza", dice Irma, la promotrice, indicando una combi adattata per trasportare i pazienti. È promotrice da anni, e sembra saperci fare. Se qualcosa risalta nelle cliniche autonome zapatiste è la mancanza assoluta di negligenza. Non potrebbe esserci. Le comunità non lo permetterebbero. 

 

Dall'oscurità della strada spuntano tre figure; una è avvolta in una coperta. È un anziano con grave difficoltà respiratoria. Irma saluta e porta l'anziano all'interno della clinica. Ci sono notti che qui non si dorme, come nei grandi ospedali.

 

(Traduzione "Maribel" – Bergamo)

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