mercoledì 1 gennaio 2014

I combattimenti durarono 12 giorni; la lotta continua

 
 

La Jornada – Martedì 31 dicembre 2013

I combattimenti durarono 12 giorni; la lotta continua

A 20 anni dall'insurrezione in Chiapas, gli zapatisti resistono e si reinventano


Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de Las Casas, Chis., 30 dicembre.

Contrariamente a quanto si continua a dire, e difficilmente confrontabile con la realtà, le comunità autonome zapatiste, senza aiuti governativi (al contrario, il governo messicano risponde alle domande originali di questi popoli con una sostenuta guerra di bassa intensità e logoramento), sono riusciti a realizzare un processo di autogoverno, nel quale sono state fondate decine di nuovi insediamenti sulle terre recuperate dopo la sollevazione del 1994. Questi, sommati agli oltre mille villaggi che formano i municipi autonomi ribelli, danno come saldo non più povertà ed emarginazione, come vorrebbero le cassandre del potere, ma regioni organizzate con sistemi propri ed efficienti di educazione, salute collettiva essenzialmente di prevenzione, produzione agricola per l'autosufficienza, la commercializzazione indipendente di caffè, miele e artigianato. Tutto, al di fuori del consumismo indotto, della dipendenza economica e del controllo politico che implicano, in Chiapas, i piani governativi.

Dopo il 1994 lo stato ha sperimentato una virtuale riforma agraria, con l'appropriazione di migliaia di ettari di quello che furono fattorie e proprietà che oggi sono nelle mani dei popoli maya dell'entità. Si parla di 700 mila ettari occupati da indigeni; la maggior parte, in realtà, andarono a beneficio di chi non si era nemmeno ribellato. L'influenza della ribellione zapatista ha raggiunto e portato benefici anche a quelli che si tengono ai margini del governo ed in alcune occasioni sono serviti per osteggiare, aggredire e cacciare i ribelli ed i loro simpatizzanti indigeni. Benché negata sistematicamente dalle autorità, la paramilitarizzazione è un fatto costante, con implicazioni criminali ed impunità garantita.

In Chiapas cambiò la vita dei popoli originari

Si chiude il mese di dicembre. In queste ore, 20 anni fa, centinaia di comunità maya nel sudest messicano si disponevano finalmente a sollevarsi in armi contro quello che hanno sempre chiamato malgoverno, dopo di anni di preparazione per la guerra di liberazione nazionale. Le famiglie chol, tzeltal, tojolabal, tzotzil, salutavano padri, figli o fratelli miliziani. Gli insorti, molte donne, li avrebbero guidati dalla Selva Lacandona, gli Altos e Zona Nord per occupare simultaneamente diverse città all'alba di fine anno. E così all'alba ad Altamirano a distruggere l'orologio del municipio; a San Cristóbal de Las Casas, alle prime luci del giorno, i locali, i turisti ed i primi giornalisti (Amato Avendaño Figueroa, direttore del Tiempo, il primo fra tutti) andarono a vedere chi aveva occupato e svuotato il palazzo, dal suo balcone lessero, per voce del comandante Felipe notoriamente senza passamontagna, la Dichiarazione della Selva Lacandona dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), e fecero conoscere le loro richieste. Il subcomandante Marcos, unico meticcio, attrasse immediatamente l'attenzione dei media. Dall'oscurità alla luce, un poco impacciati, si vide che chiunque fossero, erano preparati per quello che volevano fare. Col volto coperto, chiedevano per tutti tutto, niente per noi.

Ad Ocosingo, il secondo giorno li aspettava una battaglia sanguinosa e lì sarebbe caduto il maggior numero di ribelli, tra loro il comandante Hugo, rispettato dirigente tzeltal. Molti furono giustiziati dall'Esercito federale (che attaccò proveniente da Palenque) faccia a terra, con le mani legate dietro la schiena, ma la maggioranza morirono in combattimento. La strada verso le vallate fu disseminata di cadaveri di indigeni con la divisa di un esercito contadino che avrebbe ridefinito l'idea di modernità, secondo le classi dominanti. Nelle prime ore era corsa voce che non fossero messicani, che parlavano come stranieri. Devono essere del Guatemala, dissero i caxlanes sbarrandosi in casa. Quasi troppo facile sembrò la presa di Las Margaritas, dove gli insorti affrontarono la polizia; in quell'azione cadde il subcomandante Pedro, ed il mondo non lo avrebbe conosciuto. Le comunità della valle tojolabal lo recuperarono e lo piansero con tutti gli onori.

Salvo che ad Ocosingo, il ripiegamento degli insorti fu rapido, quasi misterioso. Lasciando Las Margaritas, i ribelli passarono per la fattoria del generale, ex governatore e proprietario terriero Absalón Castellanos Domínguez e lo fecero prigioniero. Era responsbiale di molte vite di indigene e sarebbe stato giudicato per i suoi crimini. E come ne La voragine, di José Eustasio Rivera, se li divorò la selva. O la montagna tzotzil degli Altos.

Le elite credevano che all'alba del 1994 il Messico starebbe entrato nel primo mondo come socio di lusso delle potenze del nord. Col chiasso dei guastafeste indigeni in un lontano angolo della patria, il paese si trovò piuttosto di fronte ad una guerra quasi inverosimile, ad un'eloquenza inedita alla quale nessuno potè essere indifferente. Il loro Ya basta! cambiava le regole del gioco. I media accorsero in massa da tutti i paesi. C'era un nuovo giocatore: i popoli indigeni del Messico. Il resto, è storia.

Venti anni dopo

Con lo stile saccente tanto caro ai neoliberisti, ora chiedono conto agli zapatisti: che cosa è stato fatto in questi 20 anni?, e tirano fuori cifre, conclusioni errate e menzogne malintenzionate. Dopo quattro lustri, cinque presidenti e otto governatori, la pace non è stata firmata e pertanto la dichiarazione di guerra è ancora in atto. Gli incontri tra i ribelli e le autorità sono stati pochi (l'ultimo risale a 18 anni fa). Gli accordi siglati a San Andrés nel 1996 furono rinnegati il giorno dopo dal governo federale che li aveva firmati, e da allora gli zapatisti vengono ignorati nei censimenti, sono trattati come oggetti nei sondaggi, e combattuti con violenza occultata e cannonate di denaro sotto il nome di programmi, i quali non comprendono mai le comunità che dopo l'insurrezione si sono dichiarate in resistenza.

I combattimenti di gennaio durarono 12 giorni. Centinaia di migliaia di persone (si parlò di un milione) uscirono per le strade a chiedere il cessate il fuoco. Da allora esiste una tregua tra le parti, benché ripetutamente violata dal governo (rilevante quella del 9 febbraio 1995, con l'offensiva zedillista a tradimento contro le comunità, e quella del 10 giugno 1998, con l'attacco militare al municipio autonomo San Juan de la Libertad). La guerra del governo non si è fermata un solo istante. I fronti sono molti e non necessariamente armati. Tuttavia, nell'agosto del 1994 gli zapatisti avrebbero fatto una dichiarazione inedita dicendo di essere un esercito che aspirava a non esserlo più. Nei fatti, a differenza dei movimenti insurrezionali dell'America Latina in generale, si sono imbarcati nella costruzione di un regime autonomo, autosostenibile anche se modesto, le donne rivendicano i propri diritti e non devono niente a nessuno. Hanno continuato la guerra senza sparare; hanno conquistato pace e territorio, costruito villaggi, municipi e cinque centri di governo, chiamati Caracol, dove dal 2003 funzionano le originalissime giunte di buongoverno.

Giunti al 2014, i popoli zapatisti continuano a reinventare, perché possono farlo. La loro resistenza è stata ardua, hanno sofferto senza piegarsi, e continuano ad albeggiare per celebrare la vita. Una guerra come nessuna, no? http://www.jornada.unam.mx/2013/12/31/politica/036n1pol

(Traduzione "Maribel" - Bergamo)

 

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