martedì 24 dicembre 2013

Subcomandante Marcos: Rewind 2. (1/2)

 

Dicembre 2013
"Uno sa di essere morto quando le
cose che lo circondano hanno smesso di
morire."
Elías Contreras
Professione: Commissione di Investigazione dell'EZLN
Stato Civile: Defunto.
Età: 521 anni e più.
È l'alba, e se me lo domandassero, ma non l'hanno fatto, direi che il problema con i morti sono i vivi.
Perché poi generalmente si scatena la disputa assurda, oziosa e indignante sulla loro assenza.
Quel "io li ho conosciuti-visti-mi hanno detto" è soltanto l'alibi per nascondere il "io sono l'amministratore di quella vita perché amministro la sua morte".
Qualcosa come il "copyright"della morte, convertita dunque in mercanzia che si possiede, si scambia, circola e viene consumata. Per questo esistono perfino istituzioni: libri storiografici, biografie, musei, effemeridi, tesi, giornali, riviste e dibattiti.
E si cade nella trappola dell'edizione della storia stessa per limare gli errori.
Si usano allora i morti per innalzarsi un monumento su di loro.
Ma, secondo la mia modesta opinione, il problema con i morti è sopravvivergli.
O si muore con loro, un po' o molto ogni volta.
O ci si aggiudica il titolo di loro portavoce. In fin dei conti non possono parlare, e non è la loro storia, quella loro, che si racconta, ma si giustifica la propria.
O si possono anche usare per pontificare con il noioso "io alla tua/vostra età". Quando l'unico modo onesto di completare questo ricatto a buon mercato e per nulla originale (quasi sempre rivolto a giovani e bambini), sarebbe concludere con un "aveva commesso più errori di te/voi".
Dietro il sequestro di questi morti, c'è il culto della storiografia, così di sopra, così incoerente, così inutile. Ovvero, la storia che vale e che conta è quella che sta in un libro, una tesi, un museo, un monumento e negli equivalenti attuali e futuri che non sono altro che un modo puerile di addomesticare la storia del basso.
Perché ci sono quelli che vivono a costo della morte di altri, e sulla loro assenza costruiscono tesi, saggi, scritti, libri, film, ballate, canzoni ed altre forme più o meno eleganti di giustificare la propria inazione… o la sterile azione.
Quel "non è morto" non può che essere solo uno slogan, se nessuno prosegue il cammino. Perché secondo il nostro modesto e non accademico punto di vista, ciò che importa è il cammino non chi lo percorre.
E, approfittando del fatto che sto riavvolgendo questo nastro di giorni, mesi, anni, decenni, domando, per esempio:
Del SubPedro, del señor Ik, della Comandanta Ramona, valgono i loro alberi genealogici? Il loro DNA? I loro certificati di nascita con nome e cognome?
O ciò che vale è il cammino che hanno percorso insieme ai senza nome e senza volto - cioè, senza lignaggio familiare e/o scudo araldico -?
Del SubPedro vale il suo vero nome, il suo volto, il suo stile, raccolti in una tesi, una biografia - cioè, in una bugia documentata secondo convenienza -?
O vale la memoria che di lui esiste nelle comunità che aveva organizzato? Sicuramente i fanatici della religione l'avrebbero accusato, giudicato e condannato per essere ateo, ed i fanatici della razza anche, ma per essere meticcio e non avere la pelle del colore della terra, con quel razzismo al contrario che si pretende "indigeno".
Ma la decisione di lottare del SubPedro, del Comandante Hugo, della Comandanta Ramona, degli insurgentes Alvaro, Fredy, Rafael, vale perché qualcuno gli mette un nome, un calendario, una geografia? O perché quella decisione è collettiva e c'è chi prosegue?
Quando qualcuno vive e muore lottando, nella sua assenza ci dice "ricordami", "onorami", "biasimami"? O ci impone di "proseguire", "non arrendersi", "non tentennare", "non vendersi"?
Voglio dire, io sento (e parlando con altri compas so che non è solo un mio sentimento) che il conto che devo presentare ai nostri morti è che cosa si è fatto, che cosa manca e che cosa si sta facendo per completare ciò che ha motivato questa lotta.
Probabilmente mi sbaglio, e qualcuno mi dirà che il senso di ogni lotta è perdurare nella storiografia, nella storia scritta o parlata, perché è l'esempio dei morti, la loro biografia addomesticata ciò che motiva i popoli a lottare, e non le condizioni di ingiustizia, di schiavitù (il termine reale per definire la mancanza di libertà), di autoritarismo.
Ho parlato con alcuni compagne, compagni, zapatisti dell'EZLN. Certo, non con tutt@, ma con quelli che posso ancora vedere, con i quali posso stare.
C'è stato tabacco, caffè, parole, silenzi, ricordi.
Non è stata l'ansia di durare indefinitamente, bensì il senso del dovere quello che ci ha portati qui, nel bene o nel male. Il bisogno di fare qualcosa di fronte all'ingiustizia millenaria, quell'indignazione che sentiamo come la caratteristica più contundente di "umanità". Non vogliamo nessun posto in musei, tesi, biografie, libri.
Quindi, nell'ultimo respiro, noi zapatiste, zapatisti, ci domandiamo "mi ricorderanno?". O ci domandiamo "se cederò di un passo sul cammino?", "c'è chi lo proseguirà?".
Noi, quando andiamo sulla tomba di Pedro, gli diciamo quello che abbiamo fatto affinché tutti lo ricordino, o gli raccontiamo quello che si è fatto nella lotta, quello che ancora c'è da fare (sempre manca ciò che manca), quanto siamo ancora piccoli?
Gli rendiamo buon conto se prendiamo il "Potere" e se gli innalziamo una statua?
O se possiamo dirgli "Senti Pedrín, siamo ancora qui, non ci siamo venduti, non tentenniamo, non ci arrendiamo"?
E, a proposito di discussioni…
Il fatto di darsi un altro nome ed occultare il volto, è per nasconderci dal nemico o per sfidare la sua struttura da mausoleo, la sua nomenclatura gerarchica, le sue offerte di compra-vendita truccate da poltrone burocratiche, premi, lodi e lusinghe, club grandi o piccoli di seguaci?
/ sì mio caro, i tempi cambiano, prima il maestro o la maestra - o l'equivalente di mandarino della conoscenza - si corteggiava dedicandogli libri, lusingando le sue parole, guardandol@ con rapimento. Ora si posta nei suoi scritti, si danno "like" nelle sue pagine web, ci si somma al numero di seguaci che cinguettano disordinatamente… /
Voglio dire, ci importa chi siamo? O ci importa quello che facciamo?
La valutazione che ci interessa e colpisce, è quella di fuori o quella della realtà?
La misura del nostro successo o fallimento sta in quello che appare su di noi sui media a pagamento, nelle tesi, nei commenti, nei "pollici in alto", nei libri di storia, nei musei?
O sta in quanto raggiunto, mancato, consolidato, in sospeso?
E riavvolgendo ancora…
Della Chapis, importa che era credente e cristiana conseguente, o importa che ha vissuto e lottato, con e nel suo essere cristiana, per chi non l'ha mai conosciuta? Certamente i fanatici dell'ateismo l'avrebbero accusata, giudicata e condannata per non professare la religione degli ismo che pretende di monopolizzare la spiegazione e guida di tutte le lotte.
Una volta, dopo avere letto"Il Vangelo secondo Gesù" di José Saramago, la Chapis cercò il letterato e compagno per dirgli non solo che il suo libro non le era piaciuto, ma anche che lei avrebbe scritto la propria versione sull'argomento. Importa se riuscì ad incontrare Saramago, se gli disse questo, se scrisse la sua versione? O importa la sua decisione di farlo?
E di Tata Don Juan, vale solo per i suoi cognomi "Chávez Alonso", il suo sangue purépecha, il cappello che lo copriva e lo mostrava, come se indossasse un passamontagna? O vale anche per le strade in diversi continenti che hanno avuto l'onore del suo passo originario?
Le bambine ed i bambini assassinati nell'Asilo ABC, ad Hermosillo, Sonora, Messico, che hanno avuto appena una brevissima biografia, valgono per il numero di righe ed i minuti a loro dedicati sui mezzi di comunicazione? O valgono per il sangue che sangue e vita ha dato loro, e che ora si impegna con degna ostinazione e vuole giustizia? Perché quei bambini e bambine valgono anche ora, benché assenti, per i padri e le madri che sono partoriti con la loro morte.
Perché la giustizia, amici e nemici, è anche impedire che si ripeta l'ingiustizia, o che cambi nome, faccia, bandiera, alibi ideologico, politico, razziale, di genere.
...segue
 


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