martedì 5 maggio 2009

PACO IGNACIO TAIBO II SULL'INFLUENZA IN MESSICO

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Noi prigionieri in Messico
tra i fantasmi della peste

di PACO IGNACIO TAIBO II

CITTA' DEL MESSICO - State tranquilli, amici miei. Non è così terribile come vi dicono, questa non è la città di appestati che vi hanno descritto. Viviamo in un perenne stato di shock, d'accordo. Però esaminate le cifre, la dimensione del fatto. Città del Messico è una metropoli di oltre venti milioni di abitanti, la più popolosa del mondo. Sapete quanti sono i presunti contagiati? Due o tremila al massimo, che fa una percentuale dello 0,0001 eccetera. Tutto molto relativo. Tuttavia, siamo calati in uno scenario straordinario. Spettatori e protagonisti di uno spettacolo da pellicola di fantascienza.

I cinema sono chiusi, i teatri sono chiusi. Niente partite di calcio allo stadio, ristoranti con le serrande abbassate. Scuole primarie ferme come la maggior parte degli uffici pubblici. Ma la gente continua ad andare al lavoro, i servizi di trasporto - metropolitana, pullman, taxi - funzionano regolarmente. Le strade però sembrano quasi deserte. Prive di colori. Mancano le nuvole immobili nel cielo, le pozzanghere, le insegne giallognole al neon, il calore del pomeriggio. Ti fermi un istante, e ti rendi conto che il frastuono di questa città - il torrente della maledetta baraonda di fumo e di clacson, di marmitte che strepitano, di semafori rossi: la sinfonia delle sette di sera - suona lontano, ovattato.

Hai solo occhi per questi fantasmi che camminano in silenzio con le loro mascherine sul volto, mantenendo cinquanta centimetri di rigorosa distanza l'uno dall'altro. Fantasmi che sollevano la mascherina e si arrestano un istante per ingozzarsi lungo la strada in quei piccoli posti dove ancora continuano a dare da mangiare, guardandosi intorno furtivi. Prendi nota, compare. A Città del Messico battono simultanemente i cuori del Primo e del Terzo Mondo. Il paradosso malvagio è che in questa città ci sono più studenti universitari che a New York, più clochard che a Parigi, più poveri che a Nuova Delhi, più morti ammazzati che nell'Inghilterra di Jack lo Squartatore, una polizia più corrotta che in Thailandia. E alcuni tra i migliori scrittori del mondo.

Bene, la verità è che siamo una razza abituata a sopravvivere. Da un paio di giorni la gente di Città del Messico sta cominciando ad abituarsi allo spettacolo. All'inizio sembrava solo una influenza un po' più aggressiva, ed è questo che ha prodotto le morti: l'automedicazione, la convinzione di potersi tranquillamente curare a casa. Adesso va molto meglio, ora se individui il virus nelle prime lo puoi tranquillamente curare: a livello di base distribuiscono degli anti-virali che fermano la febbre. Il governo federale sosteneva di aver messo a disposizione un vaccino, ma era una bugia: per fortuna c'è una tale diffidenza nei confronti delle autorità che nessuno ha prestato attenzione. L'espansione del virus è ormai controllata, contenuta.

Vivo in una bolla. Nel mezzo di una tana, e aspetto. Mi sento bene fisicamente, ma sono stato costretto a interrompere le poche cose che avevo da fare. Ho rinunciato ad un paio di presentazioni di libri, dovevo partecipare al Festival letterario di Acapulco. Passo il mio tempo in casa, leggo, mi appunto qualcosa. E rifletto. Rifletto sulla disinformazione, sul tanto rumore che è stato fatto per presentare questa come una città di appestati. Ci si concentra sulla malattia, e si dimentica la crisi politica permanente di questo paese, la vergognosa inefficienza del governo federale, la spaventosa crisi economica che ci divora, l'arroganza delle organizzazioni criminali e dei politici, i quotidiani massacri dei narcotrafficanti. Inizia l'epidemia e noi tutti messicani cominciamo a tremare.

Ma cosa sta accadendo davvero? In quasi due settimane dicono siano morte in tutto il paese circa centocinquanta persone, ma nessuno ancora sa esattamente le cause di tutti questi decessi. Il numero dei contagiati ve l'ho detto. Ma ci raccontano - ma vi raccontano - un'altra storia, la storia di una metropoli e di un paese di appestati.

(Testo raccolto da Massimo Calandri)
(4 maggio 2009 – La Repubblica)

 




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