lunedì 29 agosto 2011

] SupMarcors: Terza Lettera a Luis Villoro 2/3

 

FORSE...

Terza Lettera a Don Luis Villoro nello scambio su Etica e Politica


III. Incolpare la vittima.

Uno psicologo nordeamericano, William Ryan, nel 1971 scrisse il libro "Incolpare la vittima" ("Blaming the Victim"). Nonostante la sua intenzione iniziale fosse una critica al cosiddetto "Rapporto Moynihan" che attribuiva la responsabilità della povertà della popolazione nera degli Stati Uniti alle condotte ed ai modelli culturali e non alla struttura sociale, quest'idea è stata applicata principalmente a casi di sessismo e razzismo (più frequentemente nei casi di violenza sessuale, dove si accusa la donna di aver "provocato" il violentatore con l'abbigliamento, l'atteggiamento, il luogo, ecc..).

Anche se detto in altro modo, Theodor Adorno definì il fatto di "incolpare la vittima" come una delle caratteristiche specifiche del fascismo.

Nel Messico contemporaneo sono stati alcuni membri dell'alto clero, autorità governative, artisti e "leader di opinione" dei mezzi di comunicazione a ricorrere a questa bugia per condannare delle vittime innocenti (principalmente donne e minorenni).

La guerra di Felipe Calderón Hinojosa ha trasformato questo tratto fascista in un programma di governo e di applicazione della giustizia. E non sono pochi i mezzi di comunicazione che l'hanno fatto proprio, permeando così il pensiero di chi ancora crede a quello che si dice e si iscrive su stampa, radio e televisione.

Qualcuno, da qualche parte, ha segnalato che i crimini contro gli innocenti racchiudono una triplice ingiustizia: quella della morte, quella della colpa e quella dell'oblio.

Il sistema che subiamo si prende cura, conserva e coltiva il nome e la storia dell'assassino, sia per la sua condanna, sia per la sua glorificazione.

Ma il nome e la storia delle vittime restano dietro.

Le vittime vengono uccise un'altra volta quando sono condannate a diventare un numero, una statistica. Molte volte nemmeno questo.

Nella guerra che Felipe Calderón Hinojosa ha imposto alla società intera del Messico, senza distinzione di classe sociale, razza, credo, genere o ideologia politica, si aggiunge un ulteriore sofferenza: quella di etichettare le vittime innocenti come criminali.

In questo modo, con lo slogan del "regolamento di conti tra narcotrafficanti", si maschera l'impero d'impunità.

E questa pesantissima lapide cade anche su familiari e amici.

L'ingiustizia imperante non serve solo a garantire l'impunità a funzionari governativi di ogni tipo, federali, statali e municipali. Ma opprime anche le famiglie e le amicizie delle vittime.

Ed opprime anche i loro morti quando a livello sociale si prescinde dal loro nome e dalla loro storia, ed una vita retta viene deformata dagli appellativi prodigati dalle autorità e ripetuti fino alla nausea dai mezzi di comunicazione.

Le vittime della guerra diventano allora colpevoli ed il crimine che li amputa o li uccide altro non è che una forma quasi divina di giustizia: "se la sono cercata".

Felipe Calderón Hinojosa sarà ricordato come un criminale di guerra, non importa se oggi, avvolto nello scapolare, si dà arie da statista o "salvatore della patria".

La sua storia sarà ricordata con rancore.

Nemmeno avrà, in mancanza di giustizia, la beffa e lo scherno popolari che normalmente accompagnano l'uscita dei mandatari.

Le sue patetiche imitazioni di "guida turistica", l'illegalità e l'illegittimità del suo arrivo alla presidenza, i suoi fallimenti politici, le sue responsabilità nella crisi economica, l'essersi circondato di una squadra di picchiatori e guardie del corpo travestiti da funzionari, il nepotismo, il consolidare quello che è ormai noto come "il cartello di Los Pinos"; tutte le sue figuracce resteranno in secondo piano.

Rimarrà la sua guerra, persa, con la sua quota di vittime "collaterali": la sconfitta, il deterioramento e il discredito irrimediabili delle forze armate federali (i vari telefilm potranno fare poco o niente per contrastarlo); la consegna della sovranità nazionale all'impero delle strisce e le torbide stelle (l'abbiamo già detto: gli Stati Uniti d'America saranno gli unici vincitori di questa guerra); l'annichilimento delle economie locali e regionali; la distruzione irreparabile del tessuto sociale; ed il sangue innocente, sempre il sangue innocente…

Può essere che alla morte non ci sia rimedio.

Che niente possa riempire il vuoto di solitudine e disperazione che lascia la morte di un innocente. 

Può essere che niente di quello che si fa possa riportare in vita le decine di migliaia di innocenti morti in questa guerra.

Ma quello che si può fare è lottare contro la tesi fascista di "incolpare la vittima", e nominare i morti e con questo recuperare le loro storie.

Liberarli così dalla colpa e dell'oblio.

Alleviare la loro assenza.

IV. Nominare i morti e la loro storia.

Mariano Anteros Cordero Gutiérrez, era il suo nome. Doveva compiere 20 anni quando, il 25 giugno 2009 a Chihuahua, Chihuahua, fu assassinato.

Il padre di Mariano, il dott. Mariano Cordero Burciaga, incontrò l'allora governatore dello Stato di Chihuahua, José Reyes Baeza, e questi gli disse che l'omicidio era dovuto a scontri di strada. Qualche settimana dopo gli avvenimenti, il Collegio degli Avvocati dello Stato chiese chiarimenti sui fatti alle autorità competenti. Queste risposero che di era trattato di "un regolamento di conti tra narcotrafficanti". Incolpare la vittima.

Di seguito, qualche passaggio della sua storia:

Mariano studiava ingegneria gestionale all'Istituto Tecnologico di Parral (ITP) ed era stato ammesso all'Università Autonoma España de Durango, Campus Parral.

Prima di questi studi era stato volontario presso il Collegio Marista del villaggio di Chinatú, Municipio di Guadalupe y Calvo, Chihuahua. Era responsabile di 32 bambini indigeni che studiavano nella primaria del collegio.

Mariano era un giovane zapatista, di quelli che lottano senza passamontagna. Nel marzo del 2001, insieme al padre, partecipò come cintura di pace alla Marcia del Colore della Terra. Nel 2002 partecipa alle molte manifestazioni della sfera altromondista a Monterrey, Nuevo León, in occasione di un vertice di capi di Stato a cui partecipavano Bush ed anche Fidel Castro. Quando è morto, Mariano conservava nel suo zainetto che usava quotidianamente la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il Manifesto del Partito Comunista ed il suo ultimo libro da lui acquistato: "Notti di fuoco e insonnie".

Quando abbiamo percorso il nord del Messico con L'Altra Campagna, al nostro passo per lo stato di Chihuahua il giovane Mariano era presente ad una delle riunioni. Alla fine della riunione chiese di parlare con me privatamente.

La data? 2 novembre del 2006. Alcune settimane prima, il 17 ottobre di quell'anno, Mariano aveva compiuto 17 anni.

Ci sedemmo nella stessa stanza in cui si era svolta la riunione. Parola più, parola meno, Mariano mi manifestò il desiderio di venire a vivere in una comunità zapatista. Voleva imparare.

Mi sorprese la sua semplicità ed umiltà: non disse che voleva venire ad aiutare, ma ad imparare.

Gli dissi la verità: che la cosa migliore era che studiasse e si laureasse, perché qua (e là, e da tutte le parti) le persone d'onore finiscono quello che cominciano; nel frattempo che non smettesse di lottare lì, nella sua terra, con la sua gente.

Che al termine degli studi, se la pesava ancora così, avrebbe avuto un posto tra noi, ma al nostro fianco, non come maestro né come alunno, ma come uno in più di noi.

Chiudemmo il patto con una stretta di mani.

7 anni prima, l'8 maggio 1999, quando Mariano aveva 9 anni, io gli avevo scritto un messaggio su una pagina di quaderno:

"Mariano: Arriverà il momento, (non ancora, ma arriverà, è sicuro) in cui sul tuo cammino ne incontrerai altri che lo attraversano e dovrai sceglierne uno. Quando arriverà questo momento, guardati dentro e saprai che non ci sono opzioni, che la risposta è una sola: essere conseguente con quello che si pensa e si dice. Se questo è vero, non importa la strada né la velocità del passo. Quello che importa è la verità che questo passo porta con sé".

Oggi nominiamo Mariano, la sua storia, e da questa geografia mandiamo alla sua famiglia un abbraccio zapatista fraterno che, sebbene non guarisca, allevia…

V. Giudicare o tentare di capire?

Anche dalla nostra geografia abbiamo tentato di seguire con attenzione il passaggio del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità guidato da Javier Sicilia.

So bene che giudicare e condannare o assolvere sono la strada preferita dai commissari del pensiero presenti in ogni lato dello spettro intellettuale, ma pensiamo che bisogna fare uno sforzo per tentare di capire varie cose:

La prima è che si tratta di una mobilitazione nuova che, nel suo progetto di costituirsi in movimento organizzato costruisce le proprie strade, con i propri successi e cadute. Come ogni cosa nuova, pensiamo che merita rispetto. Loro possono dire, a ragione, che si possono discutere le forme ed i metodi, ma non le cause.

E merita inoltre attenzione per tentare di comprendere, invece di esprimere giudizi sommari, tanto cari a chi non tollera niente che non sia sotto la sua direzione. 

E per rispettare e comprendere bisogna guardare in alto, ma anche in basso. 

Vero che in alto balzano all'attenzione ed irritano le moine che ricevono i responsabili diretti di tante morti e distruzione.

Ma in basso vediamo che, tra familiari e amici delle vittime, si risveglia speranza, consolazione, unione.

Noi pensavamo che forse era possibile che nascesse un movimento che fermasse questa guerra assurda. Non sembra che sia così, o non ancora.

Ma quello che si può apprezzare, fin d'ora, è che ha reso tangibili le vittime.

Le ha tirate fuori dalla lista nera, dalle statistiche, dalle fantastiche "vittorie" del governo di Felipe Calderón Hinojosa, dalla colpa, dall'oblio.

Grazie a questa mobilitazione, le vittime cominciano ad avere nome e storia. E si sgretola la menzogna della "lotta al crimine organizzato".

Certo ancora non capiamo il perché si dedichi tanta energia e lavoro ad interloquire con una classe politica che, da tempo, ha perso ogni volontà di governo e non è altro che una banda di facinorosi. Forse lo scopriranno da soli.

Noi non giudichiamo e, pertanto, né condanniamo né assolviamo. Tentiamo di capire i loro passi e l'anelito che li anima.

Insomma, il degno dolore che li unisce e muove merita ed ha il nostro rispetto e ammirazione.

Pensiamo logico dialogare con i responsabili dei problemi. In questa guerra è ragionevole rivolgersi a chi l'ha scatenata e la cavalca. Chi critica che si dialoghi con Felipe Calderón Hinojosa dimentica questo elementare fattore.

Sulle forme che ha preso questo dialogo sono piovute critiche di ogni tipo.

Non credo che a Javier Sicilia tolgano il sonno le critiche vili, per esempio, di Paty Chapoy di La Jornada, Jaime Avilés (di frivolo e isterico), o le viltà del Dottor ORA (....) a cui manca solo di dire che Sicilia ha fatto ammazzare suo figlio per "promuovere" l'immagine di Felipe Calderón Hinojosa; o le critiche di chi gli rimprovera di non essere radicale, fatte proprio da chi si vanta di "non aver rotto neanche un vetro".

Nella sua corrispondenza (e mi sembra in alcuni eventi pubblici), a Javier Sicilia piace ricordare un poema di Kavafis, in particolare il verso che dice: "Non devi temere né i lestrigoni né i ciclopi, né la collera dell'adirato Poseidón". Questi critici isterici non arrivano neppure lontanamente a questo, ed i patetici rancori di questi omuncoli non vanno oltre i loro pochi lettori.

In realtà questo movimento sta facendo qualcosa per le vittime. E questo è qualcosa che nessuno dei suoi "giudici" può portare a proprio favore.

Per il resto, né Javier Sicilia né alcuni dei suoi amici disprezzano le osservazioni critiche che ricevono dalla sinistra, che non sono poche e sono serie e rispettose.

Ma non bisogna dimenticare che sono osservazioni, non ordini.

Trascrivo il finale di una delle lettere private che gli abbiamo mandato:

"Personalmente, se me lo permette, le direi di continuare con la poesia, e l'arte in generale, al suo fianco. In essa si trovano sostegni più fermi di quelli che sembrano abbondare nel chiacchiericcio senza senso degli "analisti" politici.

Per questo termino queste righe con le parole di John Berger:

Non posso dirti quello che l'arte fa e come lo fa, ma so che spesso l'arte processa i giudici, chiede vendetta per l'innocente e proietta verso il futuro quello che ha subito il passato, in modo che non sia mai dimenticato.

So anche che il potente teme l'arte in ognuna delle sue forme, ed a volte questa arte passa tra la gente come una diceria e una leggenda perché dà senso a ciò che la brutalità della vita non riesce a dare, un senso che ci unifica, perché alla fine è inseparabile dalla giustizia. L'arte, quando funziona così, diventa il luogo di incontro dell'invisibile, dell'irriducibile, durevole, il valore e l'onore".

Infine, forse tutto questo è irrilevante…

.. segue

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