Il  Manifesto  Domenica 8 giugno 2008
 MESSICO LA NUOVA  COLOMBIA
 DROGA E NARCOS (PIÚ PETROLIO) GUERRA  TOTALE
 Decine di morti al giorno, corpi decapitati, giudici e  politici corrotti, un clima di violenza generalizzata e sempre più  incontrollabile.
 L'inutile crociata del presidente Calderón, che intanto  cerca anche di far passare la privatizzazione di  Pemex.
 Gianni  Proiettis, Città del Messico
 Con una  quindicina di morti ammazzati al giorno, con sparatorie notturne e stragi di  poliziotti, città occupate dall'esercito e cadaveri decapitati con messaggi  addosso, la «guerra al narco-traffico», cavallo di battaglia di Felipe Calderón  in un anno e mezzo di contestata presidenza, ha prodotto solo un aumento  geometrico della violenza nelle strade, gravi violazioni dei diritti umani e una  crescita senza precedenti del senso di insicurezza nella  popolazione.
 Intere  città - come Tijuana, tequila sexo  marijuana, secondo Manu Chao; Ciudad Juárez, tristemente famosa per le  centinaia di donne impunemente assassinate; Culiacán, capitale dello stato di  Sinaloa, culla dei narcos - sono diventate nelle ultime settimane veri e propri  campi di battaglia, con i cittadini che fanno acquisti da panico ed evitano di  uscire se non è proprio indispensabile. Nel mezzo di un conflitto armato che  oppone i maggiori cartelli della droga in disputa per il territorio e tutti loro  contro le forze repressive dello stato, un avventurato passante rischia di fare  la fine di un ciego en el tiroteo, un  cieco che si ritrova nel mezzo di una  sparatoria.
 Non c'è  bisogno di ricorrere al sensazionalismo, la realtà si incarica di battere tutti  i Guinness: sette poliziotti uccisi e quattro feriti in un solo scontro a fuoco,  cinque decapitati in una settimana, tre alti funzionari che chiedono asilo negli  Stati uniti, una banda di sicari tirata fuori dal carcere da un gruppo armato.  Termini come encajuelado (cadavere  ritrovato nel bagagliaio di un'auto), encobijado (corpo avvolto in una  coperta), narcomensaje (messaggio  scritto con un avvertimento dei narcos) sono ormai parte del linguaggio  quotidiano. 
 In  questo contesto, sono ormai in molti a parlare di «colombianizzazione», intesa  come un processo di crescente militarizzazione sostenuto e diretto da  Washington. Di fatto, un «contratto» di assistenza militare al governo messicano  nella lotta ai narcos sta per essere sfornato dal Congresso USA. Con il pudico  nome di «Iniciativa Mérida» - ma ribattezzato dall'opposizione «Plan México»,  sul calco del Plan Colombia - il piano prevede l'erogazione di 350 milioni di  dollari l'anno (originalmente dovevano essere 500), ma pone una serie di  condizioni così strette che lo stesso governo Calderón, in un residuo sussulto  di dignità, si è messo a criticarle come una riedizione della abolita  «certificazione», che i gringos  rilasciavano annualmente ai paesi latino-americani. Un'umiliante pagellina  con cui il governo statunitense premiava o castigava (in dollari) i vari governi  del continente per il loro collaborazionismo nella guerra alla droga (ma non  solo).
 «Stiamo vincendo questa guerra, anche se non  sembra», ha dichiarato il procuratore generale Eduardo Medina Mora con un  umorismo involontario che ha fatto la delizia dei principali vignettisti.  Qualche giorno fa Felipe Calderón, che autorevoli opinionisti continuano a  chiamare «presidente de facto», ha puntato il dito contro i media in generale,  accusandoli di essere complici della criminalità organizzata. Il giorno dopo, il  duopolio televisivo - Televisa e TvAzteca - mostrava obbediente i successi  sportivi dei messicani all'estero, omettendo le narco-ejecuciones. Ma è difficile  nascondere venti morti in un fine settimana, specie se due erano figli di capi  eliminati in un parcheggio a colpi di  bazooka.
 «Basterebbe promuovere la legalizzazione o la  depenalizzazione delle droghe per fermare queste ondate di omicidi in tutto il  paese - dice la scrittrice Elena Poniatowska -. Le droghe sono un business colossale,  rappresentano la maggiore entrata dell'economia messicana, prima ancora del  petrolio. L'esperienza della legalizzazione dell'alcol negli Stati Uniti insegna  come si pone fine agli imperi criminali. Non è con la militarizzazione e la  guerra che si otterrà qualcosa. Il governo deve rivedere la sua strategia,  tenere conto dell'aumento delle esecuzioni, fermare questa violenza dilagante  che sta trasformando il paese in un campo di  battaglia».
 Da  quando denunciò con grande coraggio la strage di centinaia di studenti  nell'ottobre 1968 a Tlatelolco, Elenita è rimasta una delle voci più autorevoli  del Messico libero e pensante. Oggi fa parte del Comité en defensa del petróleo,  fomato dai maggiori intellettuali e scienziati messicani contro il tentativo di  privatizzare Pemex, la compagnia petrolifera di stato, portato avanti da  Calderón.
 Eh già,  perché dopo le droghe, che danno da vivere a più di un milione di persone e  permettono di accumulare fortune che comprano eserciti, politici, giudici e  istituzioni intere, il petrolio, con un prezzo inarrestabile, è il boccone più  ambito. Lì a farsi la guerra sono due partiti realmente antitetici: da una  parte, le multinazionali del petrolio, che già da tempo hanno unto i meccanismi  di un potere esecutivo e legislativo facilmente corrompibili.  
 Dall'altra, però, un movimento popolare che elude le  strumentalizzazioni politiche, anche se è stato convocato dal «presidente  legittimo» Andrés Manuel López Obrador, e rivendica la «expropiación petrolera» decretata dal  presidente Lázaro Cárdenas fin dal lontano 1938. Da allora, il petrolio è  diventato un orgoglioso patrimonio di tutti i messicani e un elemento  insostituibile dell'identità nazionale, una cosa che i tecnocrati neoliberisti  al governo faticano a capire e tacciano di nazionalismo anacronistico.  
 Intanto,  al movimento in difesa del petrolio, che conta già centinaia di migliaia di  «brigadistas» impegnati nella propaganda porta a porta, si è affiancato da  subito un fronte istituzionale: i 156 deputati del Fap - il Frente Amplio  Progresista, formato dal PRD, il PT e Convergencia - hanno occupato per due  settimane in aprile la tribuna del Congresso, paralizzando l'attività  legislativa. E questo malgrado l'irreparabile spaccatura del PRD di López  Obrador, il maggiore partito  d'opposizione.
 Il PAN,  espressione dell'estrema destra cattolica e neoliberista al governo, e il PRI,  l'ex partito-stato, il dinosauro in attesa di rivincita ma con alcune  contraddizioni interne in tema petrolifero, stavano per far passare la «riforma  energetica» di Calderón - leggi svendita di Pemex al capitale multinazionale. Il  «sequestro delle istituzioni», come il PRI e il PAN chiamarono il blocco delle  due Camere, servì in realtà ad imporre un dibattito nazionale, condotto da  politici, intellettuali e scienziati nel Senato. Oltre a ritardare di 70 giorni  qualunque votazione sul tema del petrolio, il dibattito sta rafforzando  l'opposizione alle proposte di legge governative e mostra la povertà di  argomenti dei privatizzatori, che a volte ricorrono a dati palesemente falsi o  all'insulto puro e semplice.
 La festa  che i piani neoliberisti credevano vicina - lo stesso commissario europeo del  commercio Peter Mandelson ha espresso «l'approvazione europea alla riforma  energetica del presidente Calderón», forse con la speranza di una fetta  della torta - subirà quanto meno un certo ritardo. Il sindaco della capitale,  Marcelo Ebrard, ha annunciato un referendum per fine luglio a Città del Messico  sul tema del petrolio. Anche se l'attuale legislazione non riconosce validità  giuridica al risultato di una consultazione popolare, la volontà della  maggioranza non potrà essere ignorata. Mentre la metà dei 31 governatori  messicani ha già anticipato la sua adesione al referendum il governo sbraita  sulla sua «incostituzionalità».
 
 
 
 
 
